di Cristiano Camera
Il sud America, dal Cile, all'Ecuador, alla Bolivia, al Brasile, a Cuba, Perù e Haiti. Ma anche Zanzibar, Tanzania, Giappone, Thailandia, Armenia, Libia. E ovviamente l'Italia, da cui è partito nel 1997 e dove è tornato quindici anni dopo. E' difficile stabilire se abbiano viaggiato di più le sue fotografie - pubblicate dai più prestigiosi quotidiani e riviste internazionali e che hanno ottenuto premi e sono comparse in mostre e libri – oppure se sia andato più lontano lui. Fatto sta che il fotoreporter romano Lorenzo Moscia, dopo un lungo e intensissimo periodo di lavoro in giro per il mondo, adesso è ritornato dove è nato, in Italia, il paese che si è sempre portato nel cuore durante i suoi viaggi. Il richiamo delle origini, si potrebbe dire, “ma anche un posto ancora da esplorare e da guardare – afferma Moscia – da un proprio e inedito punto di vista, composto da piccole realtà misconosciute. Mi riferisco soprattutto alle regioni del mezzogiorno, che saranno i prossimi set dei miei reportage. Ma anche un luogo da cui ripartire, strategico perché al centro del Mediterraneo, un ponte fra Europa, Africa e America del Nord e da cui non è distante nemmeno la Russia e il Medio Oriente”. Anche se è appena ritornato dal Cile, dove ha fatto base da quando lasciò l'Italia fino a oggi, si percepisce in un attimo che Moscia non è un professionista che può restare fermo a lungo. Il suo desiderio di documentare le realtà sociali, prima d'ogni altro aspetto, nei paesi dove è presente ciò che giornalisticamente viene definito 'd'attualità' o nelle zone cosiddette 'calde', è qualcosa di indomabile e che traspare apertamente. E che si capisce facilmente anche solo sfogliando le pagine del suo portfolio sul sito www.moscia.cl . Eppure, la sua passione per la fotografia è iniziata tardi, a venticinque anni, dopo la laurea in Giurisprudenza, e del tutto per caso. “Fu grazie a un incidente - racconta -, occorsomi mentre mi trovavo in vacanza sull'Isola di Pasqua. Facevo delle riprese amatoriali con la telecamera, quando questa mi cadde in mare. Non mi restò che la macchina fotografica e venti rullini. Fotografai di tutto, dai paesaggi 'da cartolina' che l'isola offre con i suoi Moai, ai volti delle persone".
"Mi accorsi subito che erano proprio questi ultimi, più di ogni altro aspetto, ad attrarre il mio interesse: entrare cioè con la macchina fotografica nelle loro vite e relazioni, nelle loro case, nella loro intimità domestica. Peccato che, di tutti quei rullini, soltanto due si salvarono, gli altri erano infatti male esposti. Ma quelle foto – continua il fotoreporter – furono pubblicate, assieme al racconto del mio viaggio, grazie alla loro originalità, grazie al fatto che esploravano aspetti sociali del tutto inediti dei pasquensi”. “E' da qui che presi il via – dice ancora Moscia –, grazie all'entusiasmo per quella mia prima pubblicazione. E volli fare soltanto questo lavoro: dopo poco tempo infatti, ero di nuovo in partenza per l'Isola, ma questa volta su un mercantile che, dalle coste del Cile, doveva impiegare una settimana per raggiungere Pasqua, ma che invece ci mise ben tredici giorni a causa delle tempeste in cui ci imbattemmo. E così, quasi tutti i cinquanta rullini che avevo portato li utilizzai per documentare l'inferno di quel viaggio, la vita durissima dei marinai, il mare che non avevo mai avuto occasione, prima, di osservare nella sua dimensione più temibile”. “Grazie al materiale dei miei due viaggi sull'Isola di Pasqua, oltre a farmi conoscere dalla stampa, pubblicai in Cile il mio primo libro fotografico – racconta – e, dopo quello con altre agenzie, arrivò anche il contratto con l'agenzia italiana Grazia Neri, che mi mandò a Rio de Janeiro per fotografare il carnevale. Ma anche qui, ciò che mi interessava maggiormente erano gli aspetti sociali della città. E così, dopo essere entrato in contatto con alcune persone che potevano farmi da tramite, riuscii a documentare la realtà delle favele e della prostituzione: mondi dominati dalla violenza e dallo squallore, ma anche da un'umanità sorprendente e da una solidarietà, fra persone decisamente poco abbienti, mai vista altrove".
"Luoghi dove la vita vale poco o nulla e dove si può essere uccisi per un niente: è per questo motivo che, per entrarvi, è necessario affidarsi a persone che quelle realtà le conoscono bene e ne fanno parte, a quelli che io chiamo 'angeli custodi', e avere soprattutto un atteggiamento di assoluto rispetto, a partire dall'attrezzatura fotografica da portare. Ovvero, mai macchine troppo vistose, meglio se piccole e con obiettivi corti. E poi, chiedere sempre il permesso di fotografare e, se non lo desiderano, mai farlo di nascosto. Anche in questi casi, quel che conta è l'empatia e l'intimità che si riesce a stabilire con il soggetto da ritrarre”. “Un discorso valido, questo, – dice ancora – anche per altri luoghi caldi in cui sono stato, Haiti e Libia ad esempio, dove tuttavia è necessaria anche una buona dose di egocentrismo per lavorare, ossia il voler far parte di una situazione, anche perché credo che non sia affatto vero quel che dicono altri fotoreporter, e cioè che fanno questo lavoro 'per cambiare il mondo'. Il mondo non cambia grazie a una foto e io fotografo perché amo farlo, voglio essere lì dove i fatti (quelli con la 'f' maiuscola) accadono ed essere parte integrante di quelle realtà grazie alle mie fotografie. Paura? Sì, certo, molto spesso, ma la macchina fotografica è un mezzo straordinario per esorcizzarla, ovviamente cercando sempre di calcolare tutti i rischi. Ma poi – conclude -, una volta passata la paura e terminata la tensione, ciò che resta dentro è l'esperienza vissuta con persone eccezionali che hai conosciuto e il ricordo delle storie che ti hanno raccontato, come quando passai due mesi con le famiglie dei minatori cileni intrappolati nelle miniere. Racconti indelebili, ancora vivi nella memoria. Nostalgia, a volte. Ma soprattutto, sempre, voglia di ripartire”. (Adnkronos)